martedì 13 settembre 2011

Breakfast at Tiffany's



Finalmente ho visto Colazione da Tiffany, per riempire un pomeriggio ancora afoso di settembre e soprattutto spinta da una sottile curiosità verso l'icona Hepburn, per me troppo inflazionata, stampata maniacalmente su carte, stoffe e plastiche così come la Monroe in quest'epoca di bava vintage.



Mi viene un po' da ridere: ricordo di aver visto una miriade di ragazze con il volto di Audrey Hepburn stampato anche sulla fronte, ho conosciuto giovani donne dall'aria scialba, tarchiate e con un collo da torello che esibivano borse con quella foto dell'attrice ritratta col tubino nero, i capelli raccolti e l'immancabile, lunghissimo bocchino per sigaretta, cercando forse di imitarne la grazia e la scioltezza.



Ragazze appena ventenni, studentesse iscritte ad una qualche facoltà "che dia un tono" come Medicina o Giurisprudenza, che di colpo una mattina si svegliano e decidono che sia ormai arrivato il momento di adottare l'immagine da donna in carriera, col soprabito dai toni pastello e lo specchietto nella borsa, magari nera con la Hepburn impressa sopra.



Ed eccole che scambiano i viali di Tor Vergata per quelli di una New York romantica ed autunnale, immaginando che l'ombra dorata del sole di settembre allunghi i loro corpi robusti come da costituzione mediterranea, in snelle figure, flessuose per dolcezza ed armonia, luminose di luce hollywoodiana.



Tristezza, tristezza profonda, ma quante ne ho viste.



E poi sì, è una categoria che non sopporto: le donne prive di personale identità mi stanno sul cazzo, va bene? Ancora più degli uomini. Non ho mai visto un ragazzo patito, che ne so, per il mito di Spartaco (visto che in questi giorni mandano su Sky quella "cosa" pacchiana, ibrido tra Xena e 300 di Spartacus - Gli Dei dell'Arena), andare in giro coi sandali e il gladio.



Un conto è l'atteggiamento, un conto è acconciarsi ad icona di stile anni '60 anche se sono un barilotto Heineken da 5 litri!



Tornando al film (e non m'interessa fare un'analisi strutturale da blog triste del primo pseudo-critico-cinematografico iscritto al primo anno del Dams, la rete ne è piena e va bene così), sicuramente all'altezza delle aspettative, anche per la colonna sonora e la bellissima Moon River che non conoscevo.



Peccato per la fine plastificata della povera Audrey. E pure di Marilyn e di tutte quelle povere attrici che hanno cercato di dare un senso a loro stesse, e che invece vengono sbattute e confezionate nella zuppa Campbell o nelle voci di un Mika qualunque, Grace Kelly e Merda d'artista.

domenica 11 settembre 2011

Figlio del riso





Mi ricordo che quand'ero una bambina, spesso seguivo a piccoli passi mia madre al cimitero del paesino di cui è originaria, un agglomerato di casette e casupole disseminate in una vallata del Sud Italia, umida di zanzare d'estate e nebbiosa di fuligine d'inverno.


Trotterellando tra siepi squadrate e vialetti di ghiaia e cipressi, mi piaceva guardare l'immensa distesa di fiori colorati che sembrava ogni volta dare forma ad un cuscino morbido e gigante, che immaginavo svettare tra le lapidi di marmo bianco, troppo seriose per entrare a far parte delle fantasie di una bambina annoiata di sei anni.


E guardavo i piccoli bassorilievi di santi, angeli e cristi morenti ai piedi delle croci, le fotografie ovali che ritraevano visi anziani, raramente giovani.


Tra quella strana collezione però, c'era il piccolo loculo di un bambino che ogni volta attirava la mia attenzione, facendomi fermare buoni dieci minuti prima di arrivare al "nonno Michele" che mai conobbi e che salutavo posando le labbra in un bacio diretto sul freddo liscio del marmo.


Si chiamava Simone Scotti, nato e morto nel 1981 e a pochi mesi dalla nascita.


Era un neonato, di pochi mesi, steso tra lenzuola bianche.


Non capivo: perchè la foto di un bambino tra quei visi adulti, di nonni e nonne, prozii e bisnonni, persone "grandi" che poi si erano ammalate come nonno Michele e ora stavano con Gesù.


Non ci si ammala da nonni? Non si muore da vecchi?


No.


E l'ho capito col tempo.


Quando ti ho visto andar via a soli ventidue anni di vita, per una malattia di cui muoiono i nonni che hanno fatto cose e visto nipoti, piantato ulivi e bevuto vino, portato la Madonna del Castello in processione ogni estate e fatto l'amore con la propria sposa nei letti bianchi di cotone ricamato.


E tu che hai fatto, tu, come quel bambino, Simone...che avete potuto fare con la vostra vita, plasmarla a piacere vostro fino a che punto?


Tra le tante risposte che potrei darmi, mi balena sempre alla mente il Menandro eco di studi classici: "Muore giovane chi agli dei è caro."


Sì, ma non è una conclusione soddisfacente. E allora ecco che sguinzaglio gli sproloqui sul destino, l'equilibrio cosmico, la metempsicosi e la semplice e pura volontà del Dio cristiano, che voleva prendersi Isacco e alla fine l'ha fatto davvero.


Non c'è stato agnello, montone o pecora a sostituire questo "figlio del riso" preso esattamente un anno fa, non c'è stata benevolenza divina o epifania di salvezza, ma solo una croce montata ed inchiodata nel giro di un anno.




"Alle piaghe, alle ferite che sul legno fai


falegname, su quei tagli manca il sangue ormai


perchè spieghino da soli, con le loro voci


quali volti sbiancheranno sopra le tue croci."







A te,


cugino,


amico,


compagno.


Un anno che te ne sei andato,


figlio del riso come Isacco,


ora in un esercito di angeli a guardare i mortali.