lunedì 18 giugno 2012

Di involontario, incauto ardore

Sera d'estate, gonfia di un caldo decisamente tropicale e poco mediterraneo.
Il cielo è silenzioso e ancora indaco, con qualche spennellata di arancione per via del sole andato via troppo in fretta.
Andare via troppo in fretta.
Come il sole che tramonta d'estate: non fai neanche in tempo a vederlo, lì, funambolo tondo e rosso in bilico sul filo teso dell'orizzonte, che un attimo dopo non c'è più e sparisce nel risucchio della lunga linea parallela, confine invisibile che divide ciò resta da ciò che scompare.
Fisso le pareti rosse di questo locale un po' underground, con immagini di artisti emergenti appesi al muro e scatti in successione di Marilyn Monroe. Divanetti bianchi con cuscini pezzati, sgabelli, poltrone e pouf lucidi sono disseminati intorno al piccolo palco che stasera ospita cinque ragazzi al loro ultimo concerto, causa trasferimento imminente di uno dei chitarristi.
Uno di loro, è come il suo basso, calmo, mai affrettato, silente ma presente allo stesso tempo, privo di eccessi ma di un'essenzialità solida che sazia; un altro è più incline ai voli con la sua chitarra, gabbia che libera colombe di note lunghe che passano nell'aria; il terzo canta ed elargisce acuti con generosità portando in vita testi a volte malinconici, a volte risentiti, ma sempre introspettivi; un altro introduce accordi e pioli d'appoggio per le colombe di note lunghe che intanto girano in aria, parla e fa del cabaret per allentare il braccio di tensione e di tristezza, che stasera aleggia scura come un corvo immobile sotto al palco; il quinto di loro, sta dietro a sorreggere la preziosa intelaiatura di suoni con i colpi secchi della sua batteria, che sferza senza pietà con voraci battiti cadenzati o accarezza piano, facendola singhiozzare appena.
Io registro con involontario, incauto ardore, ogni frase, gesto, sguardo, ogni volto e assorbo questo senso di precarietà e finitudine con calma rassegnazione: sono un piccolo registratore di emozioni ormai abituato al suo compito, anche se vorrei solo applaudire come tutti invece che incasellare ogni fermo immagine nel vuoto del mio stomaco.
Il problema di quest'eccesso, è che a volte, ti fa sentire così pesante.


domenica 10 giugno 2012

Una media doppio malto, per favore

Una media doppio malto e una sambuca.
Bastano per questo sabato sera.
Tanta gente, musica, sigarette e biliardino.
Io sorrido a tutti, dal mio guscio di chiocciola.
Chè basta un attimo e vengo schiacciata.
Ma ci sto provando, io ci sto provando...
a credere di avere qualcosa da dire.
Ma neanche un cane sull'autostrada
ormai si fida più.

A voi che nel momento del bisogno,
ve ne siete andate.

La chiocciola è un animale dal carattere assai cauto e timido in quanto si ritira appena sente il primo segnale di pericolo. Quando vengono anche solo sfiorate le antenne, queste si ritraggono istantaneamente. (Wikipedia)

sabato 2 giugno 2012

I remember...

Giugno.
L'aria entra piano dalla finestra, improvvisa, mai annunciata e ristora per la freschezza ancora non soffocata dall'estate di fuoco.
I libri sulla scrivania di legno scuro ci sono ma non sono gli stessi, le foto disordinate sono sparite, i pantaloncini blu, tagliati al ginocchio sono ormai confinati nell'armadio per venire usati solo in caso di "lavori in giardino" o "bagno al cane", le scarpe da ginnastica sono vecchie, vecchissime, scucite, ma ancora resistono agli asfalti, impavide come gomme usurate di una  fangosa jeep.
Eppure più o meno, io resto io ancora in versione liceale. Faccio solo più caso ad abbinare i colori, quello sì.

Sera prima della maturità. Giugno 2007.
Livia è venuta a prendermi per andare con il resto della classe a mangiare un gelato, qui  nei dintorni.
Ci sono quasi tutti nel parcheggio di Villa Sciarra, grande, blu notte e azzurra, presente, monolitica e silente come la luna, una Dea Madre immersa nella dolce quiete estiva.
Davide accende lo stereo della sua macchina: ci eravamo promessi di fare una cosa rituale e scaramantica, cantare tutti insieme Notte prima degli esami (quando ancora la canzone era più famosa del film di Brizzi), stretti in un grande cerchio.
Ci sono tanti visi confusi, spaesati.

C'era tanta gente prima, c'erano tante foto.
C'era un male covato di soppiatto, un cancro pronto ad esplodere, una piccola bomba innescata.
C'erano tanti sorrisi, tante strette di mano pronte a tramutarsi in spintoni per la lotta alla sopravvivenza.
Cosa è rimasto? Un paio di Converse sbiadite.

Compleanno mio. Marzo 2003.
Sono stata male in questi mesi. A quindici anni ho capito che la boccia di vetro in cui vivo, tana scavata nel mio studio bianco, che affaccia come una torretta di guardia su Viale san Nilo, tappezzata di poster del Signore Degli Anelli, elfi e fate, Medioevo fantasy e musica celtica per l'aria, è una boiata immensa. E' un punto indefinito di cristallo che mi toglie dalla realtà, confortevolmente ed amorevolmente. Poi esce fuori un'autogestione a scuola in cui mi butto a fare il servizio d'ordine, e capisco che l'unica cosa da mettere in ordine sono io.
Ma in classe oggi, mi porgono una bustona in carta bianca, contenente la mitica maglietta rosa con la scritta "Fatima travel agency" e una madonna fumettosa che recita: "My son is fantastic!". Sono piccole cose, che ti fanno capire che forse, non sei poi tanto indefinito come punto.

Certo che è bastato poco per uscire di scena. Sono serviti i primi fardelli pesanti e le vere croci da portare, per scappare lontano. 
Cosa è rimasto? Indici puntati contro e la cacciata del capro espiatorio della vostra ipocrisia.
E un ponte crollato, frasi sospese e giudizi inappellabili.

11 settembre 2010.
La terra trema imperiosa, come la voce di Dickinson in Jerusalem.
Ed anche il cielo con la terra, i mari e tutto l'universo. Voglio che si scardinino le case ed i palazzi ed arrivi un diluvio a sommergere tutto, alberi, cose e persone. Tutta l'umanità che nuota in un oceano di lacrime e che nuotando piange, e piange ancora e si scioglie nell'acqua salata. Le stelle cadono e mi brucia il petto, c'è un terremoto di arterie dentro di me, arrivo al fondo e poi risalgo attraverso il sangue, vado giù ancora e riemergo, giù e su, su e giù, in un'eterna lotta contro il mio respiro che sento aggrovigliarsi in gola, come in un intreccio spasmodico di serpenti ammassati tra loro. Io respiro ancora, ma mi raggomitolo qui, in un angolo di corridoio del Policlinico Gemelli e piango. Lasciatemi qui, a diventare muro bianco.
Let it rain,
lei it rain
wash the scales from my eyes...

La bomba è esplosa, il male covato si è rivelato come un dragone rosso uscito da un vulcano nero, di scaglie dure e lingua stretta, che alita fiamme ovunque.
Gli attori, le maschere, le facce, le chiacchiere, le risate, i sussurri, i colori stonati e sfumati, sono tutti usciti di scena, è c'è un unico faro piantato su di me. E un tempo per il mio lungo monologo.