mercoledì 25 aprile 2012

Gira la luna ancora

Gira la luna feconda
di stelle e pianeti viola,
nel buio del cielo affonda
ogni mese, pesante e sola.

Tesso, aspetto e guardo
l'oro in fondo ai tuoi occhi,
qui mi fermo sul bordo
dei laghi verdi di echi

dolci, vicini e lontani
li ascolto e mi avvolgo
in quei silenzi castani
di fiori verdi che raccolgo

e con me di notte porto
per stringerli ancora
nell'incubo deserto
che di flora rinfiora.

Gira la luna ancora
vorrei dormire nei laghi
dove il verde riaffiora
in piccoli arcipelaghi

di isole di roccia rosate
in cui portarti finalmente
tra barche addormentate
di acqua azzurra lucente.

lunedì 16 aprile 2012

Ma la volpe venne una notte


Avevo un piccolo coniglio fulvo
biondo, femmina, naso umido.
Me lo tolsero per le neccessità degli adulti,
magnifiche divinità dei bambini.
La vecchia Baba Jaga me lo rubò
portandolo nel capannino di metallo,
insieme a grossi conigli bianchi,
lunghe orecchie, lunghi artigli.
La piccola coniglietta fulva impazzì
di dolore e di parto,
ancora non so e me lo chiedo la notte.
Divorò i figli nati morti,
la mannaia le tagliò la gola,
a mia insaputa, la grassa Baba Jaga
così decise di scannarla.
Piansi per una settimana,
ma dall'alto,
sentenziarono che era giusto così.
La volpe venne una notte
e mangiò il mio coniglio bianco,
e quando me lo dissero,
capii che aveva avuto fame
nei boschi niente cibo,
e cuccioli rossi da sfamare.
Ma la vecchia nonna 
aveva le mani insanguinate
mentre gli segava il collo
con un coltello da cucina.
Mi regalarono la sua coda,
bianca, un batuffolo di cotone.
Piansi ancora una notte.
E così il mio pulcino giallo,
chiuso in una scatola di cartone
a morire soffocato,
nella casa della Baba Jaga.
Solo l'anatroccolo si salvò,
Ester, l'avevo chiamata,
pensando fosse una femmina.
Morì da vecchia, ormai oca bianca, ricurva,
quando nulla più aveva
della viva gaiezza
di cucciolo vivace,
che ancora vedo seguirmi in giardino,
o piccolo, nel cestino della mia bici,
o nuotare nella piscina gonfiabile
che avevo riempita per lui,
o stretto nelle mie braccia,
mentre scappavamo da una vipera.
Il passerotto caduto dal nido,
morì dopo due giorni,
nella lana dove l'avevo avvolto.
La tartaruga di Montecompatri,
tornò a San Silvestro.
I gattini randagi sono tutti cresciuti,
i cani del paese,
aspettavano le mie merendine,
ogni pomeriggio, di code a festa e zampe levate.
Ora, c'è Vega,
a maggio, cinque anni,
ma ancora danzano sbagli
e misfatti, e rancori,
e vogliono mandarla via,
perchè la colpa è sempre mia,
finchè la bambina piange
per il coniglio mangiato dalla nonna-volpe,
la coniglia impazzita, criminale da manicomio,
il passerotto dall'ala spezzata,
conficcata come un palo nel petto,
e i cani presi in catene,
che urlavano di dolore
uccisi nei canili.

domenica 15 aprile 2012

Lettera a G.

Se ti scrivo solo adesso, 
un motivo ci sarà
non è mica san Lorenzo
non ci sono stelle matte
su 'sta piccola città
non ci sono desideri da non dire 
come tempo fa
il destino ha la sua puntualità.
Hai lottato come un uomo, 
con la brutta compagnia
che non eri mica stanco
che nessuno mai è pronto quando c'è da andare via
hai pregato bestemmiando per la rabbia per tutta l'agonia
per le scelte che stava facendo Dio.

Non ci sono più i petardi
e nemmeno il diario Vitt
le bambine occhiate in chiesa, 
sono tutte quante spose,
sono tutte via da qui
non si affaccia più tua madre alla finestra a urlare "tòt a cà"
non c'è neanche più la tua curiosità
dove sono le ragazze che sceglievano fra noi
e dov'è la nave-scuola,
che hai confuso con l'amore
e forse lo era più che mai
non c'è più la pallavolo e i tuoi attrezzi non c'è più l'hi-fi
non ci sono più tutti quanti i tuoi guai.

Quando hai solo diciott'anni, quante cose che non sai
quando hai solo diciott'anni, forse invece sai già tutto
non dovresti crescer mai.
Se ti scrivo solo adesso, è che sono io così
è che arrivo spesso tardi
quando sono già ricordi che hanno preso casa qui
Non è vero ciò che ho detto: qua c'è tutto a dire che ci sei
fa' buon viaggio e poi, poi riposa se puoi.

mercoledì 11 aprile 2012

Nei nodi stretti dei ricordi

Vorrei dare un nome a tutto questo, quando a volte l'unico modo per sciogliere i nodi in gola sembra essere soltanto scrivere e scrivere, fissare le parole affinchè facciano da àncora e mi distraggano dal pensare ossessivamente, senza una meta.
Mi sono segnata a quel Forum più che per fare due o tre schiamazzi privi di senso che per altro...invece vorrei raccontare a tutti di te, sminuire fino allo sfinimento i " problemi " degli altri di fronte al tuo...ma chi sono io per farlo, io che predico sempre bene ma razzolo male?
Io che resto intrappolata nelle mie ombre mentali, io che mi faccio fustigare dai miei errori...e ti perdo, a volte non ti sento più dentro di me, a volte non mi sembra nemmeno di averti conosciuto, di averti visto crescere, di aver " litigato " e fatto mille casini con te...ma soprattutto, di averti abbracciato.
Ecco, ecco...ecco che ho sognato stanotte: insieme al sogno brutto del pestaggio, c'era anche un momento stupendo in cui, non so nè perchè nè per come, arrivavi all'improvviso come un raggio di luna che filtra dalle nuvole e mi abbracciavi forte.
Io mi ti buttavo proprio al collo in verità...e restavamo così
per un po', io nascondevo il viso nei tuoi capelli e tu mi stringevi. Non abbiamo parlato, siamo rimasti zitti per tutto il breve tempo.
E poi basta, ho sepolto il sogno sotto l'incubo (come forse faccio anche nella realtà) e mi sono svegliata angosciata e triste.
Non ho quasi studiato, non mi va davvero più, sto leggermente detestando tutto questo...fuori pioveva e mi sono lasciata trasportare dal freddo innaturale.
Però adesso, l'aver ricordato il nostro incontro mi fa sentire meglio.
Ma perchè sei morto?
Perchè? Perchè? Perchè?
Sei ancora così bello?
Perchè nessuno capisce che soltanto il fatto di essere vivi, conta come la cosa più preziosa che si ha?
Che bello il tuo abbraccio...

-->(Sembriamo noi da piccoli.)

mercoledì 4 aprile 2012

Il ritorno di Giuseppe


Ogni volta che s'avvicina Pasqua o Natale, mi gira di sentirmi tutta La Buona Novella, entrando così più che nel mistero divino, nel fitto di quello umano.
Comunque, fermo restando che ogni canzone di quell'album è un piccolo prodigio a sè nel senso pieno del termine, trovo sconvolgente la perfezione metrica, stilistica e retorica de Il ritorno di Giuseppe: preciso che la mia preferita è senza dubbio Il sogno di Maria che segue subito dopo, ma è ampia, ariosa, lascia spazio ad immagini, luci e colori che ognuno può fabbricarsi nella propria testa.
Il sogno di Giuseppe è incredibilmente pura e perfetta nella sua oggettività: le visioni sgorgano subito dalle parole che s'incastrano come in un domino poetico e la rima di ogni strofa, del secondo e quarto verso pare che faccia tendere verso l'assonanza anche il primo ed il terzo.
Questa canzone è una perla rinascimentale, pulita, fine e rotonda:

Stelle, già dal tramonto,
si contendono il cielo a frotte,
luci meticolose
nell'insegnarti la notte.

Il delicato paesaggio serale, introduce la vicenda: Giuseppe sta tornando in Galilea verso casa, accompagnato dalle prime stelle, uniche luci nel deserto, ma perfettamente chiare e visibili tanto da fare le veci di piccole lucerne. La notte scende nel deserto, e Giuseppe si affida alla luce delle stelle. Penso che non ci sia niente di più poetico.

Un asino dai passi uguali,
compagno del tuo ritorno,
scandisce la distanza
lungo il morire del giorno.

Ed ecco che dal paesaggio mediorientale, l'attenzione si sposta sull'immancabile ed infaticabile compagno di viaggio dell'umile falegname, l'asinello grigio che anche nei Vangeli ufficiali occupa spazio: il mite animale dai passi uguali connota la monotonia del lungo viaggio verso casa, sempre uguale a se stesso se non fosse scandito dalla danza del giorno e della notte. Giuseppe è come il suo asinello, instancabile, tenace, umile ed i loro passi che scivolano tra le dune di sabbia, vanno all'unisono per ritmo e cadenza.

Ai tuoi occhi, il deserto,
una distesa di segatura,
minuscoli frammenti
della fatica della natura.

Ed anche il deserto entra nella prospettiva del falegname, forse frutto di un pensare troppo macchinoso e monotono: la sabbia è una distesa di segatura, come fosse legno tagliato finemente dall'azione lenta della Natura-Falegname. E i pensieri s'intrecciano e s'incastrano al limite del sogno, come talvolta accade durante i lunghi viaggi.

Gli uomini della sabbia
hanno profili da assassini,
rinchiusi nei silenzi
d'una prigione senza confini.

Chi sono gli uomini della sabbia? Forse i nomadi del deserto, i Tuareg, che nella notte si spostano silenziosi rinchiusi nella vastità di uno spazio che sembra infinito? E nella notte si sa, ogni forma o profilo muta e diviene orrenda ed inquietante.

Odore di Gerusalemme,

la tua mano accarezza il disegno
d'una bambola magra,
intagliata del legno:
"La vestirai, Maria,
ritornerai a quei giochi
lasciati quando i tuoi anni
erano così pochi."

L'odore della città, ormai vicina, interrompe la monotonia lacerante del cammino: ecco l'odore di casa, di famiglia e della donna amata, che più che una donna è ancora una bambina. Infatti Giuseppe reca con sè una bambola di legno da donare alla sposa-bambina, lasciandole ancora il tempo del gioco prima dei doveri matrimoniali: Maria è fortemente rispettata da Giuseppe, che ne preserva l'innocenza e la spontaneità, come farebbe con una figlia.

E lei volò fra le tue braccia
come una rondine,
e le sue dita come lacrime,
dal tuo ciglio alla gola,
suggerivano al viso,
una volta ignorato,
la tenerezza d'un sorriso,
un affetto quasi implorato.

Dal pensiero si passa subito all'azione: ecco Maria che si getta al collo dello sposo con un salto, volando quasi come una rondine, ed è delicatissima la metafora che ne segue, che sottolinea la giovinezza e la freschezza della piccola sposa. Le dita di lei, sottili e come lacrime perchè si muovono dal ciglio al collo, in una lunga carezza, vogliono quasi indicare allo sposo, la pietosa richiesta del calore di un sorriso, un affetto implorato dal marito-genitore di cui ha bisogno la bambina per crescere e che volendo, può anticipare i motivi principali della strofa successiva.

E lo stupore nei tuoi occhi
salì dalle tue mani
che vuote intorno alle sue spalle,
si colmarono ai fianchi
della forma precisa
d'una vita recente,
di quel segreto che si svela
quando lievita il ventre.

Magistrale descrizione di alta poesia, per indicare sottilmente, alludere quasi, all'evento delicato della gravidanza. Giuseppe si stupisce e sgrana evidentemente gli occhi, (lo stupore sale dalle mani negli occhi perchè ha toccato con mano, in modo sensoriale e veritiero, non c'è dunque alcuna possibilità di errore o equivoco) quando facendo scivolare le mani dalle piccole spalle di Maria, arriva a cingerne i fianchi arrotondati dalla gravidanza, che conferiscono al ventre di donna una forma precisa, tonda, inconfondibile.
I fianchi prosperosi, che colmano le mani del falegname, sono dunque il marchio del segreto svelato, del mistero risolto e forse anche di quell'affetto implorato nella precedente strofa: Maria è incinta. Pochi versi in una lunga perifrasi che accolgono, proteggono e non svelano, l'intimità dell'evento.

E a te, che cercavi il motivo
d'un inganno inespresso dal volto,
lei propose l'inquieto ricordo
fra i resti d'un sogno raccolto.

Gli ultimi versi sono per Giuseppe, l'uomo non partecipe ancora del mistero divino, incredulo, confuso e smarrito: egli sonda l'espressione della sposa che di colpo non è più bambina, cercando traccia di una qualche bugia o inganno. Invece, soavemente come quel volo di rondine tra le sue braccia, Maria comincia a raccontare il sogno che racchiude la visita dell'angelo e la conseguente annunciazione.
E qui il pezzo si chiude, piano come un sipario che si abbassa, allacciandosi subito a Il sogno di Maria.