sabato 1 dicembre 2012

Agostino (Dietro ogni scemo c'è un villaggio)

Tu prova ad avere un mondo nel cuore
e non riesci ad esprimerlo con le parole,
e la luce del giorno si divide la piazza
tra un villaggio che ride e te, lo scemo, che passa,
e neppure la notte ti lascia da solo:
gli altri sognan se stessi e tu sogni di loro.


Agostino è il matto del paese. Cammina tutto il giorno attraverso ogni via, d'estate sempre a petto nudo, con la pancia alcolica cadente e una bottiglia di birra ghiacciata tra le mani, e d'inverno coperto da pochi stracci, con i jeans perennemente consunti. Mi ricordo di lui da quando ho memoria, lo vedevo passare durante i giorni di festa dedicati alla Madonna locale, tra mille luci colorate, mentre parlava da solo, grattandosi i pochi capelli incollati di sudiciume e salutando con due parole confuse ogni persona che incontrava e che, una volta sorpassatolo, ne approfittava per ridacchiare e sbeffeggiarlo, oppure più apertamente dirgli due frasi senza senso senza sapere che sì, lui le capiva bene, così come capiva che era una scelta consapevole quella di farsi deridere.


E sì, anche tu andresti a cercare
le parole sicure per farti ascoltare:
per stupire mezz'ora basta un libro di storia,
io cercai di imparare la Treccani a memoria,
e dopo maiale, Majakowsky, malfatto,
continuarono gli altri fino a leggermi matto. 


S'inseguono molte dicerie sulla vita che conducesse prima, non so realmente dove si nasconda la verità, ma molti dicono che prima era una persona dotata di un'intelligenza fuori dalla norma.
Conosceva a memoria ogni strada per arrivare in qualsiasi luogo, era insomma un atlante geografico vivente, e ricordava date come nessun altro. Tutti concordano nel sottolineare la straordinaria memoria che lo contraddistingueva, di cui ancora conserva qualche traccia visto che tiene a mente i volti delle persone e si ricorda di loro anche a distanza di anni.


E senza sapere a chi dovessi la vita
in un manicomio io l'ho restituita:
qui sulla collina dormo malvolentieri
eppure c'è luce ormai nei miei pensieri,
qui nella penombra ora invento parole
ma rimpiango una luce, la luce del sole. 


Si dice che viva in una catapecchia abbandonata, e che abbia due zie che ogni giorno gli preparano da mangiare. Poi va in giro come un cane abbandonato per tutto il giorno, parlando con se stesso sempre ad alta voce. Quando muore un abitante del luogo va pure in chiesa e partecipa al funerale. Mi è rimasto impresso ad un funerale in particolare: fissava addolorato la bara di legno chiaro mormorando qualche parola incomprensibile, e sembrava incredulo e stupefatto ragionando di come, a volte, la Morte possa essere così crudele.
Non si sa come da giovane sia impazzito: è stato anche rinchiuso in un manicomio dove ha subito maltrattamenti di ogni genere e dove, è stato anche violentato da un uomo. Sconvolto, è peggiorato negli anni e senza nessuna cura, e nessun aiuto, è diventato semplicemente il Matto del paese, lo Scemo del villaggio.


Le mie ossa regalano ancora alla vita:
le regalano ancora erba fiorita.
Ma la vita è rimasta nelle voci in sordina
di chi ha perso lo scemo e lo piange in collina;
di chi ancora bisbiglia con la stessa ironia
"Una morte pietosa lo strappò alla pazzia". 

(Un matto - F. De Andrè)


Sicuramente non è lui che non capisce gli altri, ma il contrario.
Sicuramente il giorno in cui morirà, magari da solo come è sempre vissuto, ci saranno le solite frasi da paese, dette per riempire l'aria e per scuotere l'anima dal grigio torpore in cui dormono spesso quei pochi tetti di campagna. Solo che quando se ne andrà, porterà con lui l'eterno ed inafferabile segreto di una Verità lucente come il sole, che gli altri affannosamente inseguono per tutta una vita. A lui è bastato solo parlarne con se stesso, all'ombra dei lampioni vestiti a festa d'agosto e al freddo delle panchine scrostate della piazza buia di novembre.

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