mercoledì 26 novembre 2014

S. Sebastiano

Ancora una volta.
Un letto di legno, pareti bianche, una foto di famiglia al muro.
Un computer pronuncia frasi con voce asettica e metallica.
Le tue mani, che prima pizzicavano le corde di una chitarra, sono ora serrate ai bordi di quel letto.
Gli occhi azzurri e lucidi, sono fissi allo schermo luminoso del computer agganciato a un braccio metallico.
Il polmone metallico respira con fiato alieno, meccanico, ripetitivo, come stesse gonfiando le membra di un uomo di gomma.
Non ero pronta a questo, non ero preparata.
La piccola stanza troppo calda, di un candore marmoreo, s'interseca nella memoria con quella di un Policlinico di tanti anni fa. 
I battiti nel mio petto scivolano in successione come gocce di cera di una candela a metà.
Mi aggrappo con lo sguardo a particolari stupidi e insignificanti: le tende all'uncinetto, forse troppo trasparenti, il quadro al muro che raffigura un uomo che dorme per terra, ai margini di un portone ("Che sia il suonatore Jones?" penso di fretta), le medicine accatastate su un mobile smaltato di bianco, le macchine che cooperano insieme come robot squadrati dai volti al plasma.
Ananke. Ancora una volta.
Mi torna in mente San Sebastiano trafitto da un mare di frecce: il volto bianco al cielo, gli occhi vitrei a cercare la mano di un dio tra le nuvole e il corpo inchiodato a un palo.
Lo stomaco si accartoccia come una foglia secca e mi concedo il diritto di piangere.



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